sabato 26 febbraio 2011

# 8

Freeland è un bel nome per un paese. Fa venire in mente spazi aperti, alberi e natura inocontaminata. Magari un bel cielo blu con qualche nuvola occasionale. E poi gente felice, felicissima. A frotte.
Quando arrivo invece c'è solo una strada, che taglia in due il villaggio. Ed è pure tutta ghiacciata, che se non stai attento cadi subito. Mi dicono che è la
Main Street, la strada principale, e anche l'unica strada di Freeland. Puoi andare da sopra a sotto, poi in fondo dopo le ultime case ci sta una chiesetta e uno spazio largo, così puoi girare e tornare indietro. La strada di Freeland non porta da nessuna parte. Da dove entri devi anche uscire.

Le case sui lati sono in parte rinnovate, in parte cadono a pezzi.
Sono case singole, su due piani e con i tetti spioventi. Sotto la lunga lastra di ghiaccio che copre la strada si intravede la terra battuta. Niente asfalto per Freeland.
Questa è una fetta di Pennsylvania, qua si scavava nelle montagne per raccogliere il carbone che faceva girare l'industra americana.
Oggi a Freeland ci vivono una decina di persone.

Patrick è il custode del museo del villaggio.
Ha una cinquantina d'anni, i capelli lunghi bianchi stretti in una sorta di codino hippy, gli occhiali rotondi e una giacca di pelo. Per fortuna non ha la chiatarra in mano, ci sarei rimasto parecchio male, avevo un'idea diversa dei minatori.
Ma lui in effetti non è mai stato minatore, il carbone lo ha spostato solo nel museo, nelle teche di esposizione.
Prima di diventare il custode lavorava in una fabbrica a Harrisburg, a nord della Pennsylvania.
Voleva cambiare vita e trovare un posto tranquillo, e questa gli è sembrata la soluzione ideale. Quelli del museo gli hanno dato una casa e tutto quello che serviva.
Vive qua da un paio di anni e sembra piuttosto soddisfatto, anche se la sua compagna è tornata a vivere in città dopo solo sei mesi. Adesso si vedono tutte le sere via skype, e programmano una crociera in un paese dell'america meridionale, perchè anche lui sente il bisogno di cambiare aria almeno per un paio di settimane.

La sua casa è stata rinnovata mantenendo la strutttura originale. Patrick mi dice che stanno sistemando tutte le case lungo la strada, perchè il museo ha l'obbiettivo di preservare il villaggio, che ormai è abbandonato da diversi anni.
Alcune case vengono messe in affitto a prezzi molto bassi, altre vengono solo rinnovate con la facciata esterna, un pò come nelle scenografie dei film. Il più è trovare le comparse che vogliano venire a stare a Freeland. E' questa la vera parte difficile.

Da una di queste case esce un signore anziano, si chiama Louis.
Anche lui è venuto a vivere qua da qualche anno, dopo una vita impegnata a insegnare all'università di Boston. Ci invita a entrare a casa sua.
Sulla porta di casa c'è appesa una bambola di pezza di betty bop con le corna da diavolo e un ritratto di Bush Jr e moglie, ai tempi dei loro fasti migliori.
La casa di Louis è piena di cose, proprio in senso letterale.
E' una casa stretta e lunga, su due piani, e mi dice che il piano di sopra non lo usa più perchè è ormai pieno di roba che si fa fatica a camminare.
E' tutta in legno scura, con le finestre piccole e strette. E' una delle poche case originali che non sono crollate, perchè i suoi genitori ci hanno vissuto fino alla fine, cioè finchè son rimasti sulla vita terrena di Freeland. Erano praticamente tra i pochi abitanti rimasti, e Louis è tornato a vivere nel villaggio per continuare l'impegno dei genitori: mantenere in vita il piccolo paese, non farlo spegnere del tutto.
Entriamo in cucina. Non ci sono armadi o dispense. Tutta la spesa è sul tavolo, un lungo tavolo di legno. Ci sono scatolette di tonno, avena, tomato souce, frutta sciroppata. Ha dei buoni gusti Louis, anche a me piacciono un sacco le pesche sciroppate. Ci offre delle birre, che prende dal davanzale di una delle piccole finestre. Il frigo non lo usa mai d'inverno, ci dice. Non serve. Tiene tutto fuori, nel ghiaccio. In effetti fuori dalla casa di ghiaccio ce ne sta parecchio, e le birre sono freschissime.

Louis ci mostra il resto della casa.
L'ultima stanza ha una grande vetrata con veranda che dà sulla strada. Fuori ci sono le bandiere americane che sventolano, e quella degli stati del sud, che mi ricorda tanto hazard e la macchina con le portiere saldate.
Al centro della piccola stanza c'è un megatelevisore ultrapiatto. E' acceso, sintonizzato su un canale della Fox. C'è un servizio sulle donne che manifestano in piazza a Roma e una giornalista che parla davanti alla camera raccontando delle prostitute nel governo italiano. Per fortuna non mi chiedono nulla, non avrei davvero voglia di dovermi mettere a parlare dell'italia.

Louis mi mostra molto orgoglioso una parete dove c'è appesa una testa di cervo. E' gigantesca. Poco distante ci sono solo un paio di corna, anche queste di cervo. Sono animali che ha cacciato lui, ce ne sono molti su queste montagne. Di notte li puoi trovare davanti casa, ma non puoi sparargli. Nei centri urbani non si può sparare agli animali, solo a un tot di miglia fuori dai centri abitati. Lo trovo molto giusto.
Lui questi li ha ammazzati una decina di anni fa, ma adesso non va più a caccia, sta invecchiando ci dice. Ne saranno molto felici i cervi e gli altri animali di medie dimensione che vivono nei dintorni.

Prima di uscire dalla casa, Louis mi regala due pezzi di carbone, che stanno dentro un grande secchio. La casa è scaldata solo da un paio di stufe che bruciano tutto il giorno. Il vecchio mi mostra il divano all'entrata, che in realtà capisco solo ora che è il suo letto. Sta praticamente a due metri neanche dalla porta. Mi dice che preferisce dormire vicino all'uscita, così se la casa prende fuoco fa in tempo a scappare fuori.
E' previdente Louis, è così che si campa a lungo.
Bisogna sempre tenersi una via di fuga, anche in un posto chiamato Freeland.


Freeland, Pennsylvania
13|02|2011


venerdì 14 gennaio 2011

# 7

Nella classe siamo tantissimi, oltre venti. Sedie scomode e piccole, in cui ognuno cerca di incastrarsi come può. Io sono nella seconda fila, di fronte alla lavagna e alla cattedra. Il nostro insegnante ha poco più di 30 anni, viene dalla Florida e vorrebbe andarsene da NYC. Troppi topi, troppo cara, troppo freddo. Qua ci vive da 5 anni e ormai è chiaro che ha esaurito le feste che poteva fare. Ha due piercing notevoli alle orecchie ma assicura nessun tatuaggio. Parla con entusiasmo di Amsterdam e la reputa la sua città ideale. Quando deve scrivere le parole alla lavagna usa il dizionario sull'iphone perchè dice che non ricorda bene la grammatica scritta, però a spiegare è molto bravo e ho iniziato a parlare nel futuro prossimo e la cosa mi dà molte soddisfazioni.

Hamin è afgano e fa l'università, studia da ingegnere e quando finirà la scuola vuole tornare al suo paese che è Kabul. L'America gli piace ma vorrebbe tornare a casa sua. Per pagarsi la scuola lavora in una grande magazzino dove fa stoccaggio di bibite. E' lui che mha fatto smettere di bere il the Snapple. Ne bevevo a quantità industriale, ovviamente alla pesca, il più dolce. Un giorno m'ha spiegato che la sua scarpa è rimasta incollata al pavimento dove era caduta una cassa di Snapple. Da allora ho smesso. Ora solo Ginger Ale.
Lui frequenta il corso d'inglese per avere la visa. Sono in molti qua che frequentano la scuola d'inglese per avere la visa. Devi fare 20 ore alla settimana e avere una frequenza del 75% e ottieni un visto come studente. C'è gente che va avanti così da 5 anni. Non scherzo, 5 anni. Alla scuola non interessa, basta che paghi il corso regolarmente.

Luca è di Milano, frequenta la scuola da 3 anni e mezzo. Mi racconta che non ne può più, parla un'inglese ottimo ma deve venire sempre al corso altrimenti non gli danno il visto. Lavora come grafico per una ditta che fa siti internet, di tornare in Italia non ci pensa neanche e preferisce farsi la scuola. Ha 34 anni e dice che vorrebbe sposarsi un'ameriana, sarebbe la svolta e risparmierebbe anche questa spesa inutile.
Mi racconta che una volta era più facile. Ti iscrivevi a questa scuola e ti presentavi giusto la prima settimana. Poi potevi sparire. Non ti cercava nessuno, bastava che pagavi regolarmente le rate del corso.
Ed è esattamente quello che hanno fatto due degli attentatori dell'11 settembre. Si sono iscritti, hanno preso la visa studenti ma invece di studiare l'inglese sono andati a fare un corso di volo. Dopo l'attentato, quando si è saputo che tipo di visto avevano, la scuola ha rischiato seriamente di chiudere. Da allora la fabbrica di visti facili è finita. Adesso devi frequentare la scuola almeno per 3/4, altrimenti sei subito segnalato all'ufficio immigrazione.

E' quello che fa anche Oki, coreana. Ha 50 anni ed è sposata con un brasiliano. Frequenta la scuola da 4 anni. La cosa che mi tranquillizza è che il suo inglese non è molto meglio del mio, quindi non devo abbattermi. E' molto simpatica Oki, ha un negozio con il marito nel Queens, ma non riesce ancora a ottenere la visa perciò, sorridendo, mi dice che è una studentessa quasi a tempo pieno. Quasi a tempo pieno, perchè quando non è a scuola è nel negozio di frutta. Lavora tantissimo e si sveglia praticamente all'alba, ma è sempre puntuale in classe. Deve essere puntuale, se arriva in ritardo rischia di essere segnalata assente. Mi dice che parla inglese solo in questa classe, perchè la frutta la compra dai coreani, al mercato ci vanno coreani. L'inglese non le servirebbe molto per vivere nel Queens, parla benissimo il portoghese e anche lo spagnolo. Però si deve fare per la visa. E mi offre un'arancia.

Poi c'è il gruppo delle russe, che è il più numeroso. Quasi tutte cameriere e con una pronuncia perfetta. Per la Visa studenti ci sono anche i giapponesi.
Kanako arriva da Tokyo, è a NY da un anno. Ha lasciato il suo lavoro e la sua casa ed è venuta qua a spendere tutti i soldi che aveva messo da parte. Risparmi tirati assieme in tre anni di lavoro ininterrotto e faticosissimo, mi dice. Adesso pensa di tornare in Giappone giusto per la primavera dei ciliegi il prossimo marzo, guadagnare ancora un pò di soldi e poi tornare di nuovo a NYC. Non ci pensa più a lavorare tantissimo e initerrotamente. A NY ha iniziato a fare biscotti e vorrebbe aprire il suo business vendendoli nei caffè. Non ha nessun permesso, ma le basta fare la scuola e la sera cucinare biscotti. Giappone addio, mi dice.

Il nostro insegnante ci chiede qualcosa per fare pratica di conversazione. Ci chiede di ricordare un momento che ci ha sorpreso nella vita.
Ana, una ragazza dell'Ucraina, racconta di quando è arrivata per la prima volta a NYC a 14 anni ed ha visto un ragazzo di colore. Non ne aveva mai visti di persona, e si è sorpresa perchè parlava molto bene l'inglese.
Felipe, colombiano, si è sorpreso quando ha scoperto che la sua ragazza con cui stava da un anno in realtà non era vergine come gli aveva raccontato.
Hamin racconta di quando ha trovato una bomba non esplosa nella sua stanza. Lo dice come se fosse la cosa più normale del mondo. Una ragazza del Costa Rica gli chiede se l'Afghanistan è più pericoloso del Messico.

Sono le sei e ha iniziato a nevicare. Questa dovrebbe essere la seconda bufera di neve sulla città. Ho imparato che si chiama snow blizzard. Paralizza tutte le strade in poche ore, l'ultima volta sono stati 60 cm di neve in una notte.
Decido di non prendere subito la metro ma di farmi qualche isolato a piedi. La neve arriva in faccia ed è fresca, le macchine rallentano e il traffico quasi si spegne. New York è silenziosa come poche volte l'ho sentita, e i miei passi lasciano già le prime impronte sulla strada.



N.BLVD
7|01|2011



giovedì 9 dicembre 2010

# 6

il paese è tra le montagne rocciose, a 50 km da denver.
nonostante intorno non ci sia assolutamente nulla, il posto si chiama central city. una via con case di legno e intorno molte miniere abbandonate. sotto queste montagne ci sta ancora oro, ma nessuno lo può più cercare, le miniere sono state chiuse 40 anni fa. me lo racconta amerigo, che mi accompagna su per queste strade.
amerigo dall'italia se n'è andato a vent'anni per vivere in america, ed è molto orgoglioso del suo nome. adesso ha 80 anni, porta un cappello a tesa larga e guida in maniera spericolata una grossa jeep bianca.
a central city non c'è molto. a parte la neve, il ghiaccio e enormi palazzi dove hanno messo i casinò. dieci ani fa la città non aveva più soldi, non ci viveva più nessuno, e allora hanno fatto una legge speciale e hanno legalizzato il gioco, come a las vegas. nel giro di un paio di anni il posto si è riempito di grandi alberghi e di casinò, uno per ogni casa.

le strade sono vuote, ma i parcheggi interni sono tutti occupati. sono tutti davanti alle slot machines.
incontriamo donald e suo padre al ristorante di un casinò, ovviamente, il bonanza.
donald è un uomo alto, sui 60 anni, con dei peli lunghissimi che gli escono dalla giacca aperta. è impossibile non notarli. mai visti peli così lunghi.
il padre ha l'età di amerigo, porta un cappello anche lui, ha gli occhiali spessi e una catena d'oro a doppia maglia.
ordiniamo qualcosa da mangiare. io le solite patate, perchè l'hamburger vegetariano non ce l'hanno. mi guardano anche in maniera strana quando lo chiedo.
loro invece bistecche e pollo. la ragazza che ci serve è vestita di rosso con una gonna che sembra plastica, ha il rossetto abbondante e continua ad ammiccare in maniera esagerata. mi spiegano che qua le mance sono molto importanti per sbarcare la giornata, la paga media di una cameriera è di 8 dollari all'ora.
il padre di donald, che si chiama louis, ci racconta di quando suo padre trovò l'oro nella miniera. lavorava 15 ore al giorno e alla fine si prese una piccola concessione tutta sua. nessuno ci credeva a quella concessione, ma suo padre ci lavorò quasi fino ad ammalarsi e alla fine trovò l'oro diventò molto ricco e comprò molti terreni e case. però la moglie l'aveva abbandonato e la gente voleva ucciderlo, per portargli via la concessione. comprò una delle prime auto della zona, con cui fece un viaggio verso la california, dove si piazzò per tutta la vita. abbandonando a sua volta i figli, a cui però aveva lasciato la casa e i debiti.
per tutto il racconto louis ha avuto un pezzo di formaggio attaccato alla barba, ma nè io nè il figlio abbiamo avuto il coraggio di interromperlo. ci pensa amerigo, a dirglielo, per fortuna.

mi portano a vedere qualche miniera intorno al paese.
mi raccontano che nella montagna davanti ci sta sepolto buffalo bill. era di queste parti, e non era un cowboy. aveva messo su un circo e se ne andava in europa a fare pubblicità per il west, a fare propaganda per questa frontiera. era pagato dai grandi concessionari di minere che cercavano manodopera da mandare a scavare giù nella terra. un lavoro pericoloso, dove ci moriva un sacco di gente. e qua arrivavano giapponesi, polacchi, tedeschi e gli immancabili italiani.
in cima al paese ci sono tre cimiteri diversi. il più grande è quello cattolico. una scritta su un asse di legno in mezzo a un prato infinito, e lapidi a perdita d'occhio. tutti minatori dell'età dell'oro. anzi, ex minatori.

quando torniamo in paese sono le 5 ed è già quasi buio. mentre amerigo va a farsi una partita alle slot machines io faccio un giro per il paese.
entro in un negozio che vende cose usate. c'è una donna con i capelli lunghi e bianchi che mi saluta da dietro il bancone, poi continua a parlare al telefono.
il posto è più grande di quello che sembra da fuori. è su due piani ed e ci sono tantissimi alti scaffali con sopra di tutto. io mi perdo a guardare i chiodi delle miniere, che sono numerati e ce ne saranno un centinaio. non trovo pepite e ci resto un pò male. poi prendo delle cartoline a vado verso il bancone.
la donna ha appena finito di parlare con una sua amica. dividono il negozio in 6, e si danno i turni per tenerlo sempre aperto. cercano di seguire gli orari del casinò che non chiude praticamente mai, neanche con le bufere di neve.
mi dice che la sua amica la sera prima ha visto la bambina al piano di sopra.
io non capisco bene, e la guarda con faccia interrogativa.
lei mi dice che la bambina appare ogni tanto, quasi sempre al piano di sopra. aspetta che torni sua madre, e allora quando vede qualcuno nel negozio, soprattutto la sera, chiede della madre.
poi mi dice che il paese è pieno di presenze, è un paese che ha avuto un passato violento e spesso molto triste. e le case sono tutte vecchie, questa dove ci sta il negozio ha oltre cento anni.
io le allungo le cartoline, e non capisco se questa è la storia che racconta a tutti quelli che entrano qua nello store, per dare un certo tono al paese. ad ogni modo è una storia che si addice bene al posto.

entro al casinò per cercare amerigo. lo trovo circondato da tre anziani. una signora ha un tubicino che è collegato a una bombola con le rotelle che si porta dietro da una slot machines a un'altra. i tre anziani guardano amerigo con molta ammirazione, e forse anche un pò di invidia.
lui è molto felice, ha vinto 200 dollari. mi dice che mentre torniamo a denver ci dobbiamo fermare a bere qualcosa, o se voglio possiamo fermarci nel paese. io gli suggerisco che è meglio andarcene prima che diventi completamente buio.
lui acconsente ma butta altre monete nella macchina.
passano venti minuti, e la signora con la bombola mi sta spiegando qual'è la sostanza che passa dal tubicino che si porta dietro. mi dice che la cosa non le dà molto fastidio, ci si abitua. poi si allontana e va a cambiare altri soldi. spera di vincere il jackpot da 100 mila dollari. sta dentro al casinò dalle 10 di mattina, prende il bus da denver e resta qua fino all'ultima corsa serale. tutti i giorni.
amerigo ha perso i soldi, ma è lo stesso contento.
finalmente ce ne andiamo, mentre la sua slot machines è presa d'assolto da quelli che erano gli spettatori.
ci infialiamo sulla jeep bianca, e ci allontaniamo da central city.
gli propongo una fermata al village inn a mangiare una apple pie.
questo forse lo farà viaggiare più tranquillo, e sarà un'ottima rivinciata su quelle macchinette diaboliche.

denver, colorado
23|11|2010

mercoledì 17 novembre 2010

# 5

Per entrare nel bar devi fermarti davanti a una videocamera piazzata sopra la porta verde marino di una casa a due piani. a prima vista sembra l'entrata secondaria del garage. Non c'è nessuna insegna, nessuna luce, tranne un piccolo campanello sul muro e appunto la videocamera. in realtà non è un vero e proporio bar, me lo presentano come un circolo privato, e ci arrivo con Peter e Mike.
Hanno insistito che bisognava assolutamente venire qua, perchè qua si può fumare dentro e sono tutti amici. Siamo reduci da una cena italiana in un paese perififerico della periferia di Syracuse, a 5 ore da NYC.

La porta verde marino si apre, e io d'istinto metto la mano per vedere se ho il tabacco nella giacca. sarebbe un peccato entrare in un locale per fumatori senza l'essenziale, insomma mi sentirei parecchio a disagio.
Il posto non è grande, ha un lungo bancone, qualche tavolo, un videogioco di golf. nient'altro.
dietro il bancone bandiere americane e qualche trofeo.
Peter mi presenta come l'amico italiano, e basta questo perchè davanti a me si materializzi un bicchiere di bourbon e acqua. Mi sembra una partenza un pò rischiosa, ma ormai ho il bicchiere in mano, quindi abbozzo e mando giù.

Peter è un'italo americano di 3 generazione, ha la faccia di un siciliano e il fegato di un trentino, beve tantissimo e ovviamente io lo seguo a ruota.
Mi ha accompagnato a vedere le fabbriche dove lavoravano gli italiani 50 anni fa, posti infernali a respirare chimica. di tutto questo oggi è rimasto un grande terreno contaminato e un lago fangoso. naturalmente contaminato anche questo.
Intorno depressione e gente che cerca un modo per scappare da quella che non è più una città ricca. i più cercano lavoro al municipio, a decontaminare il lago o il prato, perchè come mi dice Peter le fabbriche qua portano sempre lavoro, anche quando non ci sono più. Per quelli più giovani ci sta l'esercito, che come le fabbriche dà sempre lavoro a tutti.

Mike è libanese, ma naturalizzato americano. Ha una maglietta dei marines con una scritta in inglese e una in arabo. è stato 6 anni nell'esercito, lavorava come interprete, e odia tutti i mussulmani. A prescindere.
Mi presenta debbie o un nome simile, non capisco bene un pò perchè il bourbon viaggia già veloce, e un pò perchè il suo inglese ha un accento molto personale.
Debbie ha una bella maglietta verde mimetica super aderente che la fa sentire ventenne anche se sta sui 40, e un sorriso interessante.
sono di nuovo presentato come l'amico italiano, e si materializza un altro bicchiere.
Debbie è molto contenta di conoscere un italiano che viene dall'italia ( mi dice proprio così), e mi presenta suo marito, di orgine calabrese ma che non sa dire nulla di italiano a parte "ciao ciao bella". poi mi chiede se è giusto dire vaculo, io la aggiorno sulle doppie e un paio di consonanti e lei tutta contenta va dal marito e glielo urla un paio di volte in faccia.
Ormai sono amico di tutti, quindi altro bourbons e acqua.

Katy è molto amica di peter, si capisce perchè stanno facendo una perfomance audace quasi sdraiati sul bancone. si alzano giusto per ordinare tre bicchieri del solito. ne ordinano tre perchè uno è in automatico per me. quindi quando arrivano le bavande si fanno le presentazioni. anche katy è stata nell'esercito per un qualche anno, poi è tornata ma vorrebbe andare via di nuovo. Con l'esercito basta. vuole aprire una rosticceria ad albany, perchè pare che da quelle parti il pollo vada via come il pane. Il suo sogno è diventare ricca, fare un sacco di soldi e poter aprire una catena di rosticcerie che abbiano il suo nome. vuole lasciare un segno nel futuro, diventare un simbolo di qualcosa, come la coca cola o il donuts. La concorrenza è agguerita da queste parti, ci sta un brand per tutto ormai. ma lei ha le idee molto chiare, e mi assicura che ce la farà. Io ovviamente le credo, e faccio si si con la testa, mentre peter le infila un dito bagnato di bourbon nell'orecchio che la fa incazzare e quasi si prendono a sberle.

Il club sta aperto tutta la notte ma sono le due e noi stiamo per andare via. salutiamo tutti, ma l'irlandese dietro al bancone ci tiene anche lui ad offrirmi da bere, quello che deve essere l'ultimo bicchiere, e non si può dire di no.
Il libanese intanto mi racconta una sua avventura di guerra in qualche zona dell'africa di cui non capisco nulla, e intanto mi regala una serie di sigari che metto in tasca a caso.

Quando usciamo dal club sono le tre di notte. peter mi chiede se va tutto bene. barcolliamo in maniera vistosa entrambi, ma cerchiamo di darci un tono.
Gli dico sì con la testa e lui mi fa segno con il pollice alzato, come se avessimo vinto una qualche battaglia.


Syracuse, NY
11 | 11 | 2010


giovedì 28 ottobre 2010

# 4

Alle 4 di mattina esco dalla metropolitana. E' sempre un'esperienza ritornare a casa a notte fonda, perchè a Northern Boulevard passa un pò di tutto, anche se in maniera discreta.
Quelli che scendono poi alla mia fermata si contano sempre su una mano. A questo giro siamo due, una media precisa.
Il mio compagno di fermata ha un cappello enorme che tiene assieme, non so bene come, una montagna di rasta lunghissimi. E' un tipo alto e magro, e porta con sè una borsa di plastica colorata e piuttosto voluminosa. Sembra anche pesante.
Si ferma davanti alle scale dell'uscita. Forse vuol far passare prima qualche topo, a quest'ora se ne vedono spesso, e lui mi sembra dotato di questa sensibilità.
Passo dritto e salgo le scale, e non vedo nessun topo.

L'uscita della metropolitana è un grande incrocio che dà sul nulla.
Da una parte un megastore di abbigliamento sportivo, che ho sempre snobbato, e poi il ponte della ferrovia. Alle spalle un mc donalds aperto 24h su 24, e sopra la mia testa un grosso cavo dove da tempo ci stanno appese un paio di scarpe. Poi il semaforo, che puntalmente è rosso.

C'è un traffico discreto e io mi sento pigro, quindi decido di non giocarmi la vita nello slalom delle auto suv, caratteristiche di queste latitudini, e aspetto il bianco (il verde qui non si usa, c'è il bianco).
Mi faccio una sigaretta. Arriva il tipo con il cappello enorme e mi si avvicina chiedendomi qualcosa talmente veloce che capisco solo "Queens".
E'sempre brutto quando non capisci quello che ti dicono, ma è anche vero che a volte qua si parla a caso.
Lo guardo un attimo e gli chiedo se può ripetere. Lui sbuffa un pò, si vede che è stanco e scocciato, e sembra anche un pò preoccupato. Ma è un tipo sensibile (lo avevo già notato) e mi riformula la domanda con più lentezza. Anzi esagera anche in generosità e parla quasi a monosillabi, forse mi prende per il culo ma io non capisco e faccio finta di non capire. Sono le 4 di notte e nella sua borsa potrebbe starci anche un cadavere.

Finalmente capisco. Mi chiede se siamo nel Queens e se conosco un club che si chiama "Jamaica", dove lui deve andare a mettere i dischi (certo l'originalità ci sta tutta). Gli chiedo se conosce almeno la zona dove sta il club perchè il Queens è una bella fetta di NY e fa una cosa come due milioni e mezzo di abitanti, insomma non è proprio un quertierino. Questa notizia sembra sorprenderlo parecchio, ci resta un pò male. Mi dice che non sa altro: Jamaica al Queens, lo aspettano già da un'ora e non riesce a contattare nessuno. Mi chiede se ci sono club nelle vicinanze. Gli indico la Northern Boulverd e gli spiego che qua ci sono solo club sudamericani, come La Boom dove ci sta sempre la fila per entrare, ma non credo che lo aspettino per mettere su dischi. Altro genere.
Lui scuote la testa, parecchio sconsolato. Mi dice che arriva da una città X (non ho assolutamente capito dove ma pare lontanissima) e che non conosce per nulla NY. Che ha fatto un viaggio molto lungo, che c'ha con lui tutti i dischi e che deve trovare questo posto perchè è anche là che deve dormire.

Il semaforo è per la 4 volta rosso e non c'è nessuna soluzione al problema per il ragazzo che arriva da lontano.
Poi penso che magari deve andare nella zona del Queens chiamata Jamaica, insomma è più facile e ha più senso. Gli faccio vedere sulla cartina dove sta Jamaica, che è sulla linea di Northern Boulevard ma molto più avanti. Si rallegra, l'idea lo convince subito. In effetti non ha molta scelta. Vuole avviarsi a piedi ma gli dico che gli conviene prendere di nuovo la metro, saranno parecchi chillometri per Jamaica, insomma è il capolinea della linea F.

Ci salutiamo. Si carica sulle spalle la grande borsa piena di dischi. Poi si ferma e prova a fare un numero di telefono, senza risultato. Infine si avvia giù verso le scale, mi fa ciao ciao con la mano. E'tutto contento e va verso l'ignoto più totale.

Il semaforo è di nuovo rosso, però decido che un pò di movimento mi fa bene, prendo la rincorsa e mi lancio nello slalom notturno sull'incorcio.
Bisogna sempre un pò rischiarsela per tornare a casa.



N.BLVD
27 | 10 | 2010


domenica 17 ottobre 2010

# 3

Sono sulla 5 Ave e guardo delle macchine estremamente lussuose mettersi in fila, più o meno ordinatamente, per la sfilata del Columbus Day. Sono tutte auto di grossa cilindrata, tipo maserati o ferrari, e mi domando che cosa c'entrino con la parata in onore del viaggiatore genovese. Ma la parata del Columbus day è una parata un pò random, che per qualcuno si è trasformata in una sorta di festa dell'orgoglio italo americano. Le auto, oltre ad essere tutte molto costose, sono guidate solo da uomini, quasi tutti piuttosto attempati, con il sigaro in bocca e il cappello messo di traverso. La gente li fotografa come se fossero divi dei Sopranos. Donne ingioiellate e con tacchi altissimi salutano con la mano la folla che si accalca dietro le transenne. La polizia cerca di regolare il traffico e i motori delle auto rombano come se fossero a una partenza di una qualche gara. E invece poi si muovono lentamente. Che delusione.

Poco più avanti ci stanno i due politici locali, quelli che si candidano alle elezioni di novembre. Entrambi italo americani ed entrambi nella sfilata a rivendicare un pezzo di Colombo a testa. I giornalisti li rincorrono subito e chiedono dichiarazioni.
Entrambi si dichiarano favorevoli alle unioni gay e si allontanano.

Passano ancora alcune bande musicali, gruppi scolastici e corpi vari della polizia locale. Ma l'attenzione della folla è tutta per i gruppi di italo americani, sono loro che si prendono le strade.
Ne sfilano tanti e di tutti i tipi.
Ci sono i gruppi campani, i gruppi dei pizzaioli napoletani, c'è anche una gigantesca betoniera che reclamizza una ditta del New Jersey di cemento italiano. A questa va tutta la mia ammirazione.
Poi c'è il carro dei sons of italy, che hanno diverse loggie. C'è quella di Garibaldi, quella di Meucci, tutti italiani che hanno fatto qualcosa di importante.
Nessuno di loro parla italiano, sono ormai di terza o quarta generazione. Però dicono sempre buongiorno come stai? piacere, molto piacere.
Arriva anche un carro trainato da un fuoristrada gigantesco, nero, dove un tenore canta con un bicchiere di vino in mano. Geniali.
Alcuni tizi vestiti da pulcinelle corrono su è giù lungo la strada e ti lasciano in mano una reclame per un ristorante pizzeria a Brooklyn da qualche parte.

Ma i migliori da vedere sono le delegazioni di sindaci e assessori che vengono dall'Italia. Moltissimi sicialiani. Sorridono tutti, come se avessero vinto a una lotteria o come se fossero in vacanza con la scuola. C'è pure qualche ragazzino che sfila con la maglietta dei mondiali del 2006, come se fossimo a Roma e la sfilata stesse andando verso Circo Massimo a ubriacarsi di celebrazioni. Urlano cose a caso alla gente che li guarda senza capire nulla, soprattutto senza capire che ci fanno in mezzo alla parata del Columbus day.

Un gruppo numeroso della città di Ragusa sfila con uno striscione enorme con sopra il simbolo della cittadina, tantissime bandiere dell'italia che manco al 2 giugno si son mai viste.
Alcune donne ballano al suono dei tanburelli, con il costume tradizionale e le bandiere italiane in mano a sventolare.
Poi una signora si stacca dal gruppo e si avvicina ai bordi della strada. C'è un sudamericano che vende bandierine e lei ne vuole comprare un paio. Non parla una parola di inglese, ma si fa capire a gesti. Ne prende due grandi, americane. Mi sembra giusto, è pur sempre una sfilata per la scoperta dell'America.
Arriva un ragazzo, probabile parente, che parla con la signora in siciliano strettissimo, e si rivolge al venditore di bandiere in un inglese molto pulito.
Gli chiede una bandiera americana pure lui, ne ha in mano già una, vistosamente rovinata, ne manca una parte. Il venditore gliela dà e gli chiede 3 dollari. Un prezzo onesto per una bandiera di medie dimensioni, penso.
Il ragazzo dice che è troppo, e gli ridà indietro la bandiera, naturalmente gli ridà quella rovinata. Il venditore allora s'ìncazza e gli fa notare che la sua bandiera è l'altra. L'avesse mai fatto. Il ragazzo lo insulta e gli dice che dovrebbe ringraziarlo, perchè è lui che gli dà da mangiare in America.
Una coppia di cinesi guarda la scena ammutolita. La signora che non parla inglese aspetta che il ragazzo torni verso la sfilata e allunga qualche dollaro al venditore, che ormai s'è impegnato in lunghe imprecazioni spagnole.
Poi si allontana perdentosi dentro dietro la parata, con le bandiere americane e italiane in mano, senza sventolarle più.

Infine soppraggiunge il carro per eccellenza. Non è proprio un carro, ma un TIR più rimorchio. Sotto c'è una scritta tutta fatta di lustrini coloratissimi: Casa Calabria, New Rochelle, New Jersey, NY. Sembra il titolo di un film, tanto è vistoso.
Sul rimorchio ci sono a grandezza quasi naturale tre caravelle in legno e un Colombo che guarda verso l'orizzonte in posa impeccabile e solenne. D'altra parte tutto questo è per lui.
Non c'è nessuno che accompagna il tir, nessuna persona a piedi o sopra il rimorchio.
Non ce n'è bisogno. Non c'è bisogno di nessuno al carro di New Rochelle.
Colombo sa già dove andare.

N.BLVD
11|10|2010



venerdì 1 ottobre 2010

# 2

Qualche giorno fa ci sono stati due tornadi. L'ho saputo dalla televisione. Sono passati praticamente tra Brooklyn e il Queens, esattamente sopra la mia testa. Ma io non mi sono accorto di nulla, d'altra parte vivo in questo basement che oltre a togliermi un bel pò di luce ha il potere di non farmi sentire nessun rumore esterno. A parte gli scoiattoli.
Ce ne sono un paio che si odiano in maniera molto violenta, e che la sera sull'unico albero del piccolo giardino si danno appuntamento per massacrarsi.
Cho messo un bel pò a capire che quel suono che veniva da fuori erano loro che si prendevano a mazzate.
A me gli scoiattoli di Ny fanno paura. Sono enormi, e se li incroci per strada non sono mai loro a dover cambiare direzione. si fermano e ti fissano, finchè tu non ti allontani.
Preferisco il piccolo gatto che viene a trovarmi ogni tanto. Spero che gli scoiattoli non lo ammazzino, è probabile che accada prima o poi.

Northern Boulevard è nel nulla, è una lunga strada che incrocia a un certo punto la Broadway, come quasi tutte le strade di Ny, perchè la Broadway attraversa tutta la città.
Ogni strada è specializzata in qualcosa. C'è quella dove trovi solo scarpe, quella dove trovi solo parrucche ( davvero tante, alcune notevoli) e quella dove trovi solo auto.
Io sono in quella dove trovi solo auto. a noleggio, di seconda mano, nuove.
Ovviamente sono tutte enormi. E poi vendita e montaggio di gomme, aperti 24 h su 24. anche se torni a casa alle 5 loro sono aperti, e cosa più incredibile, c'è sempre qualcuno che sta montando una ruota.

Penso a questo mentre esco dalla metropolitana.
Sono quasi le 6, tira vento e Northern blvd è calma come è giusto che sia la domenica all'alba.
Mentre passo vicino allo store del gommista butto dentro un'occhiata.
E domenica anche per lui. Sta addormentato su una sedia vicino a una pila di gomme, messe tutte ordinate fin quasi sopra al soffitto.
Passo vicino alla concessionaria Honda. Al secondo piano c'è una discoteca sudamericana. Anche per la salsa è il marengue è ormai tardi, non ci sta più nessuno.

Prendo una parallela che mi porta in un angolo di vita sociale. Una lavanderia cinese naturalmente aperta, un rivenditore di T-mobile e una pizzeria al taglio. Decido di entrare nella pizzeria al taglio.
Il posto è piccolissimo, ci sono solo due tavoli, ed è pieno dei sopravvissuti ai balli del locale poco lontano. L'insegna parla di un certo Gino's pizza, ma dietro al bancone non c'è traccia di Gino. Quello che mi serve è un coreano che parla velocissimo, considerato l'orario.
Prendo una pizza al formaggio, l'ideale prima di andare a dormire, e mi siedo nell'unico posto libero. Dopo un pò arriva un tizio che sarà due volte me, la cosa è piuttosto comune da queste parti, e mi chiede se può sedersi. Si chiama Nelson, è un cubano d Los Angeles, c'avrà più o meno la mia età e ha nel piatto una pizza con una quantità incredibile di cose. riesco a distinguere solo alcuni ingredienti: funghi, ricotta, peperoni interi verdi, salame e penso qualche oliva. O almeno spero per lui che siano olive.
Inziamo a parlare, mi chiede di dove sono. Quando dico Italia si illumina in faccia, e subito mi chiede cosa ne penso della pizza. In verità non sono molto soddisfatto, praticamente la tengo inclinata sulla carta alimentare per far scendere tutto l'olio di cui è bella carica.
Gli dico che ne ho mangiate di migliori, anche a Ny, ma considerato l'orario va anche bene.
A questo punto Nelson sente l'urgenza di chiedermi una cosa che mi spiazza.
Mi chiede se la pizza è stata davvero inventata in Italia oppure a new york.
Resto un pò sorpreso, e anche ferito nel mio orgoglio culinario italiano, lo ammetto.
Lo fisso mentre lui mi sorride e addenta la sua pizza farcita.
Gli chiedo perchè dovrebbe essere stata inventata a Ny, e lui mi dà una serie di risposte sorprendenti:
Pizza Hut è americana, a Ny ci sono più pizzerie che McDonalds, la pizza è considerata un piatto nazionale e poi la pizza è stato il primo cibo take a way della città. E piace a tutti, nessuno odia la pizza.
Quasi mi convince, in fondo sarebbe bello fargli credere che la pizza è stata inventata a Ny.
Ma non è così, mi spiace per pizza hut che fa una fantatica controinformazione, pubblicizzandosi come l'original pizza.
Mentre nel mio piatto scivola anche la pseudo mozzarella insieme ai rimasugli di olio, cerco di portarlo sulla buona ragione e gli parlo un pò di Napoli. Gli hanno portato via un sacco di cose a Napoli, non gli si può portare via anche la pizza.
Lui mi guarda convinto, mi dice che sì è probabile, la storia ha un senso.
Allora rilancia che Ny ha inventato la prima pizzeria take away, come quella dove stiamo seduti.
Io sono arrivato alla crosta, che è la parte migliore della mia pizza, e gli dico che si, assolutamente cha ragione. Ny ha inventato i posti come quello dove siamo seduti. Un bel crocevia di persone piuttosto casuali e discorsi random.
Poi ci salutiamo come fossimo grandi amici, e io mi dirigo verso casa.
Sperando che gli scoiattoli dormano ancora.


N.BLVD
03 | 10 | 2010