Freeland è un bel nome per un paese. Fa venire in mente spazi aperti, alberi e natura inocontaminata. Magari un bel cielo blu con qualche nuvola occasionale. E poi gente felice, felicissima. A frotte.
Quando arrivo invece c'è solo una strada, che taglia in due il villaggio. Ed è pure tutta ghiacciata, che se non stai attento cadi subito. Mi dicono che è la
Main Street, la strada principale, e anche l'unica strada di Freeland. Puoi andare da sopra a sotto, poi in fondo dopo le ultime case ci sta una chiesetta e uno spazio largo, così puoi girare e tornare indietro. La strada di Freeland non porta da nessuna parte. Da dove entri devi anche uscire.
Le case sui lati sono in parte rinnovate, in parte cadono a pezzi.
Sono case singole, su due piani e con i tetti spioventi. Sotto la lunga lastra di ghiaccio che copre la strada si intravede la terra battuta. Niente asfalto per Freeland.
Questa è una fetta di Pennsylvania, qua si scavava nelle montagne per raccogliere il carbone che faceva girare l'industra americana.
Oggi a Freeland ci vivono una decina di persone.
Patrick è il custode del museo del villaggio.
Ha una cinquantina d'anni, i capelli lunghi bianchi stretti in una sorta di codino hippy, gli occhiali rotondi e una giacca di pelo. Per fortuna non ha la chiatarra in mano, ci sarei rimasto parecchio male, avevo un'idea diversa dei minatori.
Ma lui in effetti non è mai stato minatore, il carbone lo ha spostato solo nel museo, nelle teche di esposizione.
Prima di diventare il custode lavorava in una fabbrica a Harrisburg, a nord della Pennsylvania.
Voleva cambiare vita e trovare un posto tranquillo, e questa gli è sembrata la soluzione ideale. Quelli del museo gli hanno dato una casa e tutto quello che serviva.
Vive qua da un paio di anni e sembra piuttosto soddisfatto, anche se la sua compagna è tornata a vivere in città dopo solo sei mesi. Adesso si vedono tutte le sere via skype, e programmano una crociera in un paese dell'america meridionale, perchè anche lui sente il bisogno di cambiare aria almeno per un paio di settimane.
La sua casa è stata rinnovata mantenendo la strutttura originale. Patrick mi dice che stanno sistemando tutte le case lungo la strada, perchè il museo ha l'obbiettivo di preservare il villaggio, che ormai è abbandonato da diversi anni.
Alcune case vengono messe in affitto a prezzi molto bassi, altre vengono solo rinnovate con la facciata esterna, un pò come nelle scenografie dei film. Il più è trovare le comparse che vogliano venire a stare a Freeland. E' questa la vera parte difficile.
Da una di queste case esce un signore anziano, si chiama Louis.
Anche lui è venuto a vivere qua da qualche anno, dopo una vita impegnata a insegnare all'università di Boston. Ci invita a entrare a casa sua.
Sulla porta di casa c'è appesa una bambola di pezza di betty bop con le corna da diavolo e un ritratto di Bush Jr e moglie, ai tempi dei loro fasti migliori.
La casa di Louis è piena di cose, proprio in senso letterale.
E' una casa stretta e lunga, su due piani, e mi dice che il piano di sopra non lo usa più perchè è ormai pieno di roba che si fa fatica a camminare.
E' tutta in legno scura, con le finestre piccole e strette. E' una delle poche case originali che non sono crollate, perchè i suoi genitori ci hanno vissuto fino alla fine, cioè finchè son rimasti sulla vita terrena di Freeland. Erano praticamente tra i pochi abitanti rimasti, e Louis è tornato a vivere nel villaggio per continuare l'impegno dei genitori: mantenere in vita il piccolo paese, non farlo spegnere del tutto.
Entriamo in cucina. Non ci sono armadi o dispense. Tutta la spesa è sul tavolo, un lungo tavolo di legno. Ci sono scatolette di tonno, avena, tomato souce, frutta sciroppata. Ha dei buoni gusti Louis, anche a me piacciono un sacco le pesche sciroppate. Ci offre delle birre, che prende dal davanzale di una delle piccole finestre. Il frigo non lo usa mai d'inverno, ci dice. Non serve. Tiene tutto fuori, nel ghiaccio. In effetti fuori dalla casa di ghiaccio ce ne sta parecchio, e le birre sono freschissime.
Louis ci mostra il resto della casa.
L'ultima stanza ha una grande vetrata con veranda che dà sulla strada. Fuori ci sono le bandiere americane che sventolano, e quella degli stati del sud, che mi ricorda tanto hazard e la macchina con le portiere saldate.
Al centro della piccola stanza c'è un megatelevisore ultrapiatto. E' acceso, sintonizzato su un canale della Fox. C'è un servizio sulle donne che manifestano in piazza a Roma e una giornalista che parla davanti alla camera raccontando delle prostitute nel governo italiano. Per fortuna non mi chiedono nulla, non avrei davvero voglia di dovermi mettere a parlare dell'italia.
Louis mi mostra molto orgoglioso una parete dove c'è appesa una testa di cervo. E' gigantesca. Poco distante ci sono solo un paio di corna, anche queste di cervo. Sono animali che ha cacciato lui, ce ne sono molti su queste montagne. Di notte li puoi trovare davanti casa, ma non puoi sparargli. Nei centri urbani non si può sparare agli animali, solo a un tot di miglia fuori dai centri abitati. Lo trovo molto giusto.
Lui questi li ha ammazzati una decina di anni fa, ma adesso non va più a caccia, sta invecchiando ci dice. Ne saranno molto felici i cervi e gli altri animali di medie dimensione che vivono nei dintorni.
Prima di uscire dalla casa, Louis mi regala due pezzi di carbone, che stanno dentro un grande secchio. La casa è scaldata solo da un paio di stufe che bruciano tutto il giorno. Il vecchio mi mostra il divano all'entrata, che in realtà capisco solo ora che è il suo letto. Sta praticamente a due metri neanche dalla porta. Mi dice che preferisce dormire vicino all'uscita, così se la casa prende fuoco fa in tempo a scappare fuori.
E' previdente Louis, è così che si campa a lungo.
Bisogna sempre tenersi una via di fuga, anche in un posto chiamato Freeland.
Freeland, Pennsylvania
13|02|2011
sabato 26 febbraio 2011
venerdì 14 gennaio 2011
# 7
Nella classe siamo tantissimi, oltre venti. Sedie scomode e piccole, in cui ognuno cerca di incastrarsi come può. Io sono nella seconda fila, di fronte alla lavagna e alla cattedra. Il nostro insegnante ha poco più di 30 anni, viene dalla Florida e vorrebbe andarsene da NYC. Troppi topi, troppo cara, troppo freddo. Qua ci vive da 5 anni e ormai è chiaro che ha esaurito le feste che poteva fare. Ha due piercing notevoli alle orecchie ma assicura nessun tatuaggio. Parla con entusiasmo di Amsterdam e la reputa la sua città ideale. Quando deve scrivere le parole alla lavagna usa il dizionario sull'iphone perchè dice che non ricorda bene la grammatica scritta, però a spiegare è molto bravo e ho iniziato a parlare nel futuro prossimo e la cosa mi dà molte soddisfazioni.
Hamin è afgano e fa l'università, studia da ingegnere e quando finirà la scuola vuole tornare al suo paese che è Kabul. L'America gli piace ma vorrebbe tornare a casa sua. Per pagarsi la scuola lavora in una grande magazzino dove fa stoccaggio di bibite. E' lui che mha fatto smettere di bere il the Snapple. Ne bevevo a quantità industriale, ovviamente alla pesca, il più dolce. Un giorno m'ha spiegato che la sua scarpa è rimasta incollata al pavimento dove era caduta una cassa di Snapple. Da allora ho smesso. Ora solo Ginger Ale.
Lui frequenta il corso d'inglese per avere la visa. Sono in molti qua che frequentano la scuola d'inglese per avere la visa. Devi fare 20 ore alla settimana e avere una frequenza del 75% e ottieni un visto come studente. C'è gente che va avanti così da 5 anni. Non scherzo, 5 anni. Alla scuola non interessa, basta che paghi il corso regolarmente.
Luca è di Milano, frequenta la scuola da 3 anni e mezzo. Mi racconta che non ne può più, parla un'inglese ottimo ma deve venire sempre al corso altrimenti non gli danno il visto. Lavora come grafico per una ditta che fa siti internet, di tornare in Italia non ci pensa neanche e preferisce farsi la scuola. Ha 34 anni e dice che vorrebbe sposarsi un'ameriana, sarebbe la svolta e risparmierebbe anche questa spesa inutile.
Mi racconta che una volta era più facile. Ti iscrivevi a questa scuola e ti presentavi giusto la prima settimana. Poi potevi sparire. Non ti cercava nessuno, bastava che pagavi regolarmente le rate del corso.
Ed è esattamente quello che hanno fatto due degli attentatori dell'11 settembre. Si sono iscritti, hanno preso la visa studenti ma invece di studiare l'inglese sono andati a fare un corso di volo. Dopo l'attentato, quando si è saputo che tipo di visto avevano, la scuola ha rischiato seriamente di chiudere. Da allora la fabbrica di visti facili è finita. Adesso devi frequentare la scuola almeno per 3/4, altrimenti sei subito segnalato all'ufficio immigrazione.
E' quello che fa anche Oki, coreana. Ha 50 anni ed è sposata con un brasiliano. Frequenta la scuola da 4 anni. La cosa che mi tranquillizza è che il suo inglese non è molto meglio del mio, quindi non devo abbattermi. E' molto simpatica Oki, ha un negozio con il marito nel Queens, ma non riesce ancora a ottenere la visa perciò, sorridendo, mi dice che è una studentessa quasi a tempo pieno. Quasi a tempo pieno, perchè quando non è a scuola è nel negozio di frutta. Lavora tantissimo e si sveglia praticamente all'alba, ma è sempre puntuale in classe. Deve essere puntuale, se arriva in ritardo rischia di essere segnalata assente. Mi dice che parla inglese solo in questa classe, perchè la frutta la compra dai coreani, al mercato ci vanno coreani. L'inglese non le servirebbe molto per vivere nel Queens, parla benissimo il portoghese e anche lo spagnolo. Però si deve fare per la visa. E mi offre un'arancia.
Poi c'è il gruppo delle russe, che è il più numeroso. Quasi tutte cameriere e con una pronuncia perfetta. Per la Visa studenti ci sono anche i giapponesi.
Kanako arriva da Tokyo, è a NY da un anno. Ha lasciato il suo lavoro e la sua casa ed è venuta qua a spendere tutti i soldi che aveva messo da parte. Risparmi tirati assieme in tre anni di lavoro ininterrotto e faticosissimo, mi dice. Adesso pensa di tornare in Giappone giusto per la primavera dei ciliegi il prossimo marzo, guadagnare ancora un pò di soldi e poi tornare di nuovo a NYC. Non ci pensa più a lavorare tantissimo e initerrotamente. A NY ha iniziato a fare biscotti e vorrebbe aprire il suo business vendendoli nei caffè. Non ha nessun permesso, ma le basta fare la scuola e la sera cucinare biscotti. Giappone addio, mi dice.
Il nostro insegnante ci chiede qualcosa per fare pratica di conversazione. Ci chiede di ricordare un momento che ci ha sorpreso nella vita.
Ana, una ragazza dell'Ucraina, racconta di quando è arrivata per la prima volta a NYC a 14 anni ed ha visto un ragazzo di colore. Non ne aveva mai visti di persona, e si è sorpresa perchè parlava molto bene l'inglese.
Felipe, colombiano, si è sorpreso quando ha scoperto che la sua ragazza con cui stava da un anno in realtà non era vergine come gli aveva raccontato.
Hamin racconta di quando ha trovato una bomba non esplosa nella sua stanza. Lo dice come se fosse la cosa più normale del mondo. Una ragazza del Costa Rica gli chiede se l'Afghanistan è più pericoloso del Messico.
Sono le sei e ha iniziato a nevicare. Questa dovrebbe essere la seconda bufera di neve sulla città. Ho imparato che si chiama snow blizzard. Paralizza tutte le strade in poche ore, l'ultima volta sono stati 60 cm di neve in una notte.
Decido di non prendere subito la metro ma di farmi qualche isolato a piedi. La neve arriva in faccia ed è fresca, le macchine rallentano e il traffico quasi si spegne. New York è silenziosa come poche volte l'ho sentita, e i miei passi lasciano già le prime impronte sulla strada.
N.BLVD
7|01|2011
Hamin è afgano e fa l'università, studia da ingegnere e quando finirà la scuola vuole tornare al suo paese che è Kabul. L'America gli piace ma vorrebbe tornare a casa sua. Per pagarsi la scuola lavora in una grande magazzino dove fa stoccaggio di bibite. E' lui che mha fatto smettere di bere il the Snapple. Ne bevevo a quantità industriale, ovviamente alla pesca, il più dolce. Un giorno m'ha spiegato che la sua scarpa è rimasta incollata al pavimento dove era caduta una cassa di Snapple. Da allora ho smesso. Ora solo Ginger Ale.
Lui frequenta il corso d'inglese per avere la visa. Sono in molti qua che frequentano la scuola d'inglese per avere la visa. Devi fare 20 ore alla settimana e avere una frequenza del 75% e ottieni un visto come studente. C'è gente che va avanti così da 5 anni. Non scherzo, 5 anni. Alla scuola non interessa, basta che paghi il corso regolarmente.
Luca è di Milano, frequenta la scuola da 3 anni e mezzo. Mi racconta che non ne può più, parla un'inglese ottimo ma deve venire sempre al corso altrimenti non gli danno il visto. Lavora come grafico per una ditta che fa siti internet, di tornare in Italia non ci pensa neanche e preferisce farsi la scuola. Ha 34 anni e dice che vorrebbe sposarsi un'ameriana, sarebbe la svolta e risparmierebbe anche questa spesa inutile.
Mi racconta che una volta era più facile. Ti iscrivevi a questa scuola e ti presentavi giusto la prima settimana. Poi potevi sparire. Non ti cercava nessuno, bastava che pagavi regolarmente le rate del corso.
Ed è esattamente quello che hanno fatto due degli attentatori dell'11 settembre. Si sono iscritti, hanno preso la visa studenti ma invece di studiare l'inglese sono andati a fare un corso di volo. Dopo l'attentato, quando si è saputo che tipo di visto avevano, la scuola ha rischiato seriamente di chiudere. Da allora la fabbrica di visti facili è finita. Adesso devi frequentare la scuola almeno per 3/4, altrimenti sei subito segnalato all'ufficio immigrazione.
E' quello che fa anche Oki, coreana. Ha 50 anni ed è sposata con un brasiliano. Frequenta la scuola da 4 anni. La cosa che mi tranquillizza è che il suo inglese non è molto meglio del mio, quindi non devo abbattermi. E' molto simpatica Oki, ha un negozio con il marito nel Queens, ma non riesce ancora a ottenere la visa perciò, sorridendo, mi dice che è una studentessa quasi a tempo pieno. Quasi a tempo pieno, perchè quando non è a scuola è nel negozio di frutta. Lavora tantissimo e si sveglia praticamente all'alba, ma è sempre puntuale in classe. Deve essere puntuale, se arriva in ritardo rischia di essere segnalata assente. Mi dice che parla inglese solo in questa classe, perchè la frutta la compra dai coreani, al mercato ci vanno coreani. L'inglese non le servirebbe molto per vivere nel Queens, parla benissimo il portoghese e anche lo spagnolo. Però si deve fare per la visa. E mi offre un'arancia.
Poi c'è il gruppo delle russe, che è il più numeroso. Quasi tutte cameriere e con una pronuncia perfetta. Per la Visa studenti ci sono anche i giapponesi.
Kanako arriva da Tokyo, è a NY da un anno. Ha lasciato il suo lavoro e la sua casa ed è venuta qua a spendere tutti i soldi che aveva messo da parte. Risparmi tirati assieme in tre anni di lavoro ininterrotto e faticosissimo, mi dice. Adesso pensa di tornare in Giappone giusto per la primavera dei ciliegi il prossimo marzo, guadagnare ancora un pò di soldi e poi tornare di nuovo a NYC. Non ci pensa più a lavorare tantissimo e initerrotamente. A NY ha iniziato a fare biscotti e vorrebbe aprire il suo business vendendoli nei caffè. Non ha nessun permesso, ma le basta fare la scuola e la sera cucinare biscotti. Giappone addio, mi dice.
Il nostro insegnante ci chiede qualcosa per fare pratica di conversazione. Ci chiede di ricordare un momento che ci ha sorpreso nella vita.
Ana, una ragazza dell'Ucraina, racconta di quando è arrivata per la prima volta a NYC a 14 anni ed ha visto un ragazzo di colore. Non ne aveva mai visti di persona, e si è sorpresa perchè parlava molto bene l'inglese.
Felipe, colombiano, si è sorpreso quando ha scoperto che la sua ragazza con cui stava da un anno in realtà non era vergine come gli aveva raccontato.
Hamin racconta di quando ha trovato una bomba non esplosa nella sua stanza. Lo dice come se fosse la cosa più normale del mondo. Una ragazza del Costa Rica gli chiede se l'Afghanistan è più pericoloso del Messico.
Sono le sei e ha iniziato a nevicare. Questa dovrebbe essere la seconda bufera di neve sulla città. Ho imparato che si chiama snow blizzard. Paralizza tutte le strade in poche ore, l'ultima volta sono stati 60 cm di neve in una notte.
Decido di non prendere subito la metro ma di farmi qualche isolato a piedi. La neve arriva in faccia ed è fresca, le macchine rallentano e il traffico quasi si spegne. New York è silenziosa come poche volte l'ho sentita, e i miei passi lasciano già le prime impronte sulla strada.
N.BLVD
7|01|2011
Iscriviti a:
Post (Atom)